Lunar Aurora – “Hoagascht” (2012)

Artist: Lunar Aurora
Title: Hoagascht
Label: Cold Dimensions
Year: 2012
Genre: Atmospheric Black Metal
Country: Germania

Tracklist:
1. “Im Gartn”
2. “Nachteule”
3. “Sterna”
4. “Beagliachda”
5. “Håbergoaß
6. “Wedaleichtn”
7. “Geisterwoid”
8. “Reng”

Là, dove si stende il giardino silenzioso,
mi cullò mia madre;
forse -tanto tempo è trascorso-
non ci sono più giardino, casa e pianta.
Solo il mio sogno resta.

Per chi nasce con il profumo dolce del muschio nelle narici e con la téma di calpestare con passo maldestro nodose radici, i boschi sono sempre stati i predicatori più persuasivi. C’è chi li ama quando stanno in famiglie, e chi li apprezza da eremiti, come uomini solitari che non fuggono dalle debolezze ma che storniscono il mondo con le proprie fronde, le cui radici affondano al contempo nell’infinito; essi non si perdono mai, ma impiegano tutta la propria forza vitale nel portare alla perfezione la loro forma, il loro colore e odore, così da potersi al meglio (rap)presentare. Niente, ne consegue, diventa così più sacro di un bosco forte che si incurva su sé stesso per carpire la propria più intima essenza, e per potersi rivolgere al sole il mattino seguente senza dimenticare il proprio tempo, la propria storia, i propri antenati ancora presenti nelle fibre di quello stesso terreno.

Il logo della band

Da dieci anni ormai, allo scoccare dei cinque che nel 2012 separano dall’uscita del più belligerante “Andacht”, la compagnia quotidiana di un disco come “Hoagascht” vale più di mille abbracci e consolazioni. Suona così tiepidamente familiare che sembra di sentirlo al tatto quando, muto al nostro servizio, muto nel suo strano linguaggio, appare così caro e insostituibile; eppure al primo contatto -sia esso di qualsivoglia natura-, l’ultima opera firmata dai Lunar Aurora sembra volersi sottrarre al confronto diretto come indiretto con quei propri avi presenti nei suoi profondi solchi. E a conti fatti quello che lo compone, lo suona e registra, in effetti, è un sodalizio ricostruito un po’ inaspettatamente e senza il contributo del più giovane dei fratelli König, forse nel trio ormai il meno incline a dare una così nuova direzione all’orizzonte musicale del progetto; certo è che l’album esce ancora una volta per Cold Dimensions, in un febbraio da cui sono trascorsi appena nove mesi dopo il ritorno e l’annunciato secondo scioglimento della band – o meglio, lo scioglimento definitivo dopo uno iato, un congelamento precedentemente indeterminato. Le aspettative future per i lavori frutto di un’immaginazione tanto prolifica quanto a questo punto fondamentalmente altra mal si conciliano evidentemente con i Lunar Aurora, già all’epoca della prima ventilata quasi-rescissione, quella culminata nel 2006 alla creazione proprio del precedente “Andacht” (quasi interamente realizzato da Aran in uno sforzo prosciugante), percepiti dai loro stessi artefici un po’ out of tune rispetto al mondo circostante. Quale cosa strana e misteriosa, tuttavia questa, per l’ascoltatore. Un pensiero che di continuo, ogni notte, scorre via nella quieta fonte, fredda custode del cipresso ombroso. Lungi, in una retrospettiva appena decennale, dal soppesare la veridicità delle profezie anamnestiche e interne di una coppia di autentici maestri; e ciononostante, se ancora non abbiamo scordato l’eco lontana del terrore d’esser visti, se ancora sentiamo il vento fischiare e le fonti di pietra sgretolarsi, un motivo per sederci nuovamente attorno a tavole in profumato legno di pino accarezzati dal tepore di un camino scoppiettante per celebrare con ricche libagioni l’eterna profondità di “Hoagascht”, in fondo, ci sarà pure.

La band

I boschi che questa dipinge sono santuari: chi sa parlare con loro, chi li sa ascoltare, conosce la verità. Essi non predicano dottrine; predicano, incuranti del singolo, la legge primigenia della vita a cui noi tanto aneliamo assonnati sull’erba e cullati dolcemente dal ricordo del passato. Ad illuminare il nostro gelido presente è una luna vestita di ventose nubi che irradia il giardino argenteo in cui ritroviamo le nostre cose abituali, fino al sonno profondo in cui perderemo la canzone della nostra giovinezza. “Hoagascht” è in effetti una preghiera estremamente accorata, solitaria e cogitabonda, un raccoglimento solipsistico che, come un abete rosso i cui rami decombenti migrano verso l’interno, spiando le proprie memorie, tenta di distanziarsene. Ad un ascolto attento non possono sfuggire le sferzate di una voce ormai inconfondibile, la stessa che avrebbe marchiato anche l’intero “Harps Of The Ancient Temples” dei Nocternity nel 2015 (per certi strani versi non così dissimile proprio ad “Hoagascht” nella loro ipnotica alienità strutturale rispetto al resto del panorama Black Metal di ieri e oggi); non si riescono ad eludere le scintillanti immagini di una notte trapuntata d’argento che abbraccia fredda una terra ancor più gelida così come non possono passare inascoltate le pugnalate ai rancorosi singhiozzi che fendono affilatissime un’atmosfera sognante, la dimenticanza di una vita e di un amore solo per pochissimo tempo sentiti con calore e che ora rimarranno oblati per l’eternità. Ma, ad un orecchio che vuole davvero bene a questo mondo, “Hoagascht” non può al contempo che sembrare una ghiacciata crisalide di sempiterno splendore. Incerto sul proprio futuro musicale, ancora più malfermo sul proprio presente che è tuttavia un po’ padre putativo dei folkloristici Bald Anders in cui si rifugeranno i due fratelli a partire dal 2014, il nuovo quandunque caduco duo bavarese non può quindi che fermarsi e decidere di cambiare strada, di rifugiarsi in un tempo lontano e fatto di luci fioche alle finestre, scorte tra morbide punte d’abete ombrose in una notte senza stelle, in un mondo fatto di fiabe e tormenti, speranze infrante e ipnotici ritmi dalla consistenza liquidamente paratattica; non può che fermarsi ed osservare quanto percorso fino a quel momento seguendo non un cammino retrospettivo, bensì più che mai introspettivo.
Riflettere su sé stessi significa del resto un po’ spiarsi come il “Nachteule” ci fissa con occhi profondi e gialli in una foresta tetra e silenziosa dove del rapace, sonnambulo che tutto vede e che di questo tutto è testimone, non ci si può certo fidare; significa rivolgere l’invito ad entrare al krampus che respira con tremendi ringhi alla luce della torcia che arde in “Håbergoaß”, significa smettere di errare nella foresta maledetta di “Geisterwoid” per affrontare il proprio inseguitore e con rivelatorio terrore scorgervi nello sguardo gli stessi propri occhi. La ricerca di un nuovo sé, che possa con rinnovata forza vitale dare alla luce nuovi sentieri in una notte che non conosce tempo ma in cui si annida un male atavico, così familiare da essere ormai naturale, non può quindi che partire dai propri passi, ripercorsi tuttavia secondo tutt’altre direttive in partenza. La forse incerta eppure rigorosissima volontà di battere nuove strade porta quello che dieci anni fa fu il neo sodalizio su altre modalità d’incastro nell’ideazione del tessuto strutturale dei singoli brani e nel modo che gli stessi hanno di dialogare tra loro in un più ampio sistema che consta di ben cinquantadue minuti. In “Hoagascht” si ritrovano infatti solo in poche scintille luminose quel modo di distorcere la chitarra che quasi si fondeva in un tutt’uno con il ritmo cadenzatissimo di una batteria sempre mitragliante, dove i blast-beat si disperdevano a profusione; solo qua e là si scorge cioè, in questi nuovissimi rallentamenti dal sapore vagamente Rock, quel modo violentemente macabro di sciogliere acidamente i suoni delle percussioni e delle chitarre, quasi lasciate in sordina in un tentativo unico e sempre riuscito di mostrare la morte brutale come un qualcosa di spontaneo, antico, popolare e autenticamente naturale. Il dramma di un’esistenza tesa non disperatamente alla morte è tuttavia riproposto in forme magnificamente differenti, forse selezionate proprio per il loro carattere eminentemente visivo e per rendere così più chiaramente manifesta la genuina franchezza di qualcosa che artificioso non è, neanche nel caso più estremo di un omicidio colposo. Ad errare in una foresta senza nome sentendoci osservati siamo tutti noi, con la nostra idiota vanità di credere di essere gli unici a volerci salvata la pelle; ma ciò che distanzia il protagonista di “Nachteule” dalla tentazione di credersi parte di una massa universalmente indistinta, la quale si accontenta di riconoscere nel proprio destino una morte da cui non si può scappare, è la scelta di affrontare la bestia che si annida tra quelle foreste, la decisione di fronteggiare quella belva che sembra conoscerlo alla perfezione e che può convincerlo con ogni suo mezzo che, volgendo lo sguardo in basso, troverà del sangue raffermo sulle proprie mani: confessare i propri peccati -davvero commessi o meno, poco importa- raggela le vene e impedisce di scappare ancora, lontano nella notte e lontano da quegli occhi stregati che in un battito di ciglia possono farti smarrire per sempre. Dello stesso potere dispone anche lo squallido mostro che si aggira per i vicoli di un paese avvolto da una coltre di silenzio mortifero e che, con un muso sinistro e una chioma selvaggia che orla in disgustoso disordine un paio di corna caprine, urla alla luna in una notte nevosa. Il tentativo di fuggire e di mettere in salvo la propria prole appare isolato oltre che sommessamente vano; scappare senza meta non ha ragione d’essere, ma non si tratta ancora una volta di accettare passivamente la propria fine. La propria non è una fine che è di tutti e di nessuno, è un abbraccio gelido che accetta come migliore il proprio destino umano fatto di dolore e di agonie, è un concedere al Male di entrare in casa e unirsi alla propria mensa al fianco dei propri figli: la consolazione sta nel sapere che d’ora in avanti tale supplizio si verificherà solo una volta l’anno.
Questi sono solo alcuni dei temi e ritornelli che si scorgono con estrema facilità nello scorrere della musica, rinvenibili nelle pagine dei grossi libri che raccolgono fiabe tradizionali e che sembrano davvero essere le fonti di ispirazione prime per “Hoagascht”: uno spartiacque anche in termini grafici per la mente sensibilmente immaginifica di Benjamin König. Forse, il passo più in là rispetto alle proprie orme sta proprio nel cambiamento del modus operandi con cui il gruppo era solito fino al 2007 concepire i propri progetti: dall’austerità di una scrittura tutta rigore e sinfoniche geometrie, basata sul dialogo spigoloso benché osmotico tra tastiere e chitarre, voce e batteria, ad un procedere splendidamente ipnogeno e fatto di una ripetitività ammaliante che non trova seriamente eguali altrove. Ora è la facoltà creativa di disegnare delle immagini inequivocabili, che davvero parlano e suonano come le note che si ascoltano con seducente attrazione, costante e ipnotica; ora è la capacità di fornire a supporto della musica un corredo iconografico che non funge da ausilio accessorio alla musica, come in precedenza è stato, ma che si pone in rapporto necessariamente compenetrante ad essa ponendosi come una sorta di diapason orientativo. Ora e da qui, anche se per un solo irripetibile album, i Lunar Aurora sono un rinnovato magisterio con cui, tramite i mezzi di sempre, con gli arnesi del mestiere che sanno di casa, creare un mondo a sé – un’atmosfera da sogno in cui non si scappa, che non ci serve per trovare conforto o per rinnegare una realtà che sentiamo opprimente, ma un mondo in cui sappiamo che, fermandoci, non troveremo altro che noi stessi. Tale processo di costruzione squisitamente visiva di “Hoagascht” trova i propri corrispettivi musicali nella più che oculata scelta di fare un uso massiccio di campionature dal vero di suoni familiari di legni che scricchiolano, di orme soffici che comprimono sordamente il candido manto nevoso al nostro passaggio; di cinguettii e fruscii delle fronde che sempre sentiamo ma troppo di rado ascoltiamo realmente; una cornice quindi estremamente realistica, sempre più locale persino, ma resa infinitamente magica dall’uso molto diverso dei sintetizzatori, non più in funzione vicaria rispetto al sistema-brano, ma indipendentemente isolati, primi attori in un percorso tutto fiabesco dove spesso la musica stessa si ferma ad ascoltare.

I boschi non ci raccontano mai menzogne. Eppure, al decimo anniversario dall’uscita di un simile capolavoro dal suono unico al mondo, l’animo di chi scrive sente di poter ammettere con fermezza che una falsità gli è stata ingiustamente detta. Quel lento, unico e tanto discusso “suono di vecchio” troppo alieno alla modernità che sembra aver convinto i Lunar Aurora a non portarne avanti il discorso e sciogliersi definitivamente non solo si è poi ritrovato altrove, anche a distanza di anni e in contesti geografici e musicali molto diversi dai propri (basti pensare alle litanie di “Empty Space Meditation”, un lavoro neerlandese di quattro anni più giovane, nelle suggestioni del suo terzo brano confrontato a quelle che aprono “Beagliachda”), ma trova con ogni probabilità il suo perfetto contraltare proprio nelle illustrazioni con cui Aran delizia ancora oggi i nostri sguardi. Lecita e auspicabile, se tali sono ad ogni modo le premesse, la scelta di dedicarsi prevalentemente ad altro linguaggio artistico che meglio si confacesse alla personale maturità dell’artista in questione (anche se, in fondo, componente visiva e musicale non si esclusero mai a vicenda nell’arco di un’intera discografia); ciononostante, proprio nulla ha di obsoleto il coronamento di un cammino di ricerca qui davvero appena incominciato e già troncato così infelicemente sul nascere. Nulla di condannabile e degno di oblio – non finché ci sarà ancora qualcuno che, al dolce richiamo di una fredda luna di cristallo, guarderà le stelle mormorando: ois ob du mi irgendwia dakennst… Schaugst mi õ

Sara “Vesperhypnos” Cönt

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